Come ci insegna il Re Leone, “siamo tutti collegati nel grande cerchio della vita”. Come gli organismi, anche gli impianti attraversano varie fasi: prendono vita tramite l’assemblaggio dei materiali che li costituiscono, operano per un certo tempo e poi, inesorabilmente, terminano la loro attività, destinati ad essere smantellati. È solo di recente che abbiamo compreso l’importanza di rendere sostenibili tutte le fasi di vita dell’impianto, attraverso un’esauriente analisi chiamata Life Cycle Assessment (abbreviato in LCA). Uno dei punti caldi di questo tipo di studio riguarda proprio il fine vita dei macchinari: che fine fanno i componenti smantellati? Siamo in grado di dar loro una seconda vita, innescando una virtuosa circolarità tra materiali, o sono destinati a diventare nient’altro che rifiuti? Le pale eoliche sono un calzante esempio di questo dilemma spesso ancora irrisolto.
Un problema insidioso
Nello scorso secolo, la tecnica ha progredito in modo da migliorare sempre più le prestazioni delle pale eoliche. Per raggiungere questo obiettivo, servono materiali sempre più robusti e leggeri: i compositi sono la soluzione. Ad oggi, lo standard industriale consiste nell’utilizzare fibre di vetro, tenute insieme da una resina epossidica. Se siete appassionati di fai da te, quest’ultima la conoscete bene: l’effetto lucido su tavoli, lampade ed oggettistica è merito suo. Per chi invece avesse altri hobby, la resina epossidica è un polimero (come le plastiche) termoindurente, ossia che con particolari condizioni di temperatura passa da essere un liquido viscoso a un solido rigido e insolubile. Questo materiale ha prestazioni eccellenti da tutti i punti di vista (è robusto, indeformabile e leggero), tranne per il riciclo.
La sua struttura è infatti talmente robusta da rendere complesso scomporla nelle sue componenti una volta finito il suo operato. Per questo motivo, ad oggi la pratica comune è quella di gettarle miseramente in discarica. Si stima che ogni anno si producono circa 225 mila tonnellate di rotori eolici da rottamare: se non si trova una soluzione al più presto il problema diventerà presto ingestibile. Abbiamo seminato vento: ora raccoglieremo una tempesta di pale.
Cosa ne facciamo delle pale eoliche?
Negli ultimi anni qualcuno ha provato ad aggirare il problema in maniera creativa. Se non è conveniente smantellare le pale per riciclarle, forse la soluzione può essere lasciarle intere. In varie parti del Nord Europa sono germogliati progetti di riuso delle pale, trasformandoli in funzionali elementi di arredo urbano. La fantasia ha potuto correre libera: con il corpo delle pale sono stati realizzati parchi giochi, panchine, depositi biciclette e si sta addirittura progettando un intero ponte. L’idea è certamente virtuosa, però è evidente che questa soluzione non possa perdurare nel lungo termine: le pale eoliche nel mondo sono troppe per essere convertite tutte in panchine! Un punto per l’ingegnosità, ma dobbiamo spingerci oltre.
La scienza ci salverà?
È giunta l’ora di far scendere in campo la scienza. Esistono dei metodi per provare a riciclare le pale, anche se nessuno di essi è ad oggi vincente. Un primo trattamento meccanico consiste nello sminuzzare ed introdurre i frantumi come materia prima nella produzione di cemento, andando parzialmente a sostituire sabbia ed argilla. Questa azione può portare alla riduzione delle emissioni di CO2 associate a questo settore fino al 27%. Nonostante l’ottimo risultato, non può essere questa la strada principale per lo smaltimento delle pale: non è mai un bene essere dipendenti da una filiera esterna. Nel momento in cui l’industria del cemento trovasse una soluzione migliore, le pale eoliche frantumate si ritroverebbero disoccupate e andrebbero a costituire nuovamente un rifiuto.
Un’altra possibile soluzione è la pirolisi. È un trattamento termico che consiste nel tagliare le pale in porzioni più corte e di portarle a 450°C, temperatura alla quale la resina epossidica brucia. Così facendo è possibile recuperare le fibre all’interno della pala. Purtroppo, questa procedura degrada la qualità delle fibre, accorciandole e rendendole meno robuste, che diventano dunque inadatte ad essere utilizzate in nuove pale eoliche. Possono essere usate in impieghi meno gravosi, come nei prodotti in vetroresina per treni ed automobili, ma è di nuovo necessario appoggiarsi ad un altro settore per chiudere il cerchio.
La nuova frontiera riguarda i processi chimici. L’idea di fondo è la stessa della pirolisi, eliminare la resina per recuperare le fibre ma utilizzando questa volta un composto chimico. Così facendo, la qualità delle fibre non viene intaccata, permettendone un riuso in nuove turbine eoliche. Questo grandioso risultato però si paga in termini di sostenibilità. Le sostanze chimiche utilizzate spesso non sono ecocompatibili e il processo stesso richiede di raggiungere alte temperature e pressioni. È come se per mettere in commercio un bene dal valore di mercato di 10€, spendessimo 15€ per produrlo: non ne vale la pena.
Quindi qual è la soluzione? Ad oggi è ancora una questione aperta. Forse per trovarla dobbiamo ripensare al problema alla sua radice, studiando nuovi materiali riciclabili per le pale. O magari potremmo cercare degli enzimi capaci di decomporre i compositi, allestendo fattorie di batteri in grado di digerire le pale stesse. In ogni caso, la ricerca ha ancora una lunga strada da fare per trovare una soluzione definitiva. Non possiamo che augurarle il vento in poppa.
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