Stoccaggio idrogeno: più facile a dirsi che a farsi

Chi lo avrebbe mai detto che uno dei problemi più difficili da risolvere sull’uso dell’idrogeno fosse proprio il non usarlo? Lo studio dei sistemi di accumulo per stoccare questo gas è uno degli argomenti più spinosi in materia. Tutti i dilemmi nascono dalle particolari proprietà di questo gas, in particolare la sua bassissima densità. Dunque, sono in fase di sviluppo quattro tecnologie che cercano di affrontare lo stesso problema da diversi punti di vista.

Idrogeno compresso: pressione alle stelle

Il sistema ad oggi più sviluppato è quello dell’idrogeno compresso, perché è il metodo più simile a ciò a cui siamo già abituati a fare con gli altri gas. Consiste semplicemente nel comprimere l’idrogeno e nel confinarlo in una bombola, ma purtroppo non è così facile metterlo in atto. Questo perché il gas è così poco denso che per poterlo contenere in volumi gestibili è necessario aumentare vertiginosamente la pressione. Lo standard ad oggi è di 700 bar: se pensiamo che le bombole da immersione hanno una pressione massima di esercizio pari a 200 bar la situazione inizia ad apparire molto seria.

Anche attuando una compressione così spinta non si riesce ad ottenere grandi risultati: si stima che solo il 4,3% del peso totale sia idrogeno, mentre il resto è costituito dalla bombola stessa. Questo numero scoraggiante fa subito intuire come questa non possa essere la strada da seguire per le applicazioni di mobilità, soprattutto per i mezzi pesanti come camion o aerei. La maggior parte del peso è costituito dalla bombola stessa. Infatti, deve essere composta da molti strati diversi per poter contenere l’idrogeno in sicurezza. Il gas non può entrare a diretto contatto con i metalli perché li infragilisce (abbiamo parlato in dettaglio del problema nell’articolo “Idrogeno: supereroe o condanna? Facciamo chiarezza”), quindi sono presenti altri strati in polimero e fibra di vetro per garantire la robustezza della struttura. Se così non fosse, il passaggio da bombola a bomba sarebbe molto breve.

Figura 1: bombola per idrogeno compresso, con in evidenza la moltitudine di strati che la compongono (fonte: Rising sun)

Da gas a liquido: idrogeno liquefatto

Se il gas è così poco denso, una soluzione potrebbe essere farlo diventare liquido. Ecco la seconda tecnologia di stoccaggio: l’idrogeno liquefatto. Dietro a un pensiero così semplice si nasconde una montagna di complicazioni. A pressione ambiente, la temperatura di liquefazione dell’idrogeno è di ben -253 °C, la seconda più bassa tra tutti gli elementi chimici, superata solamente da quella dell’elio. Raggiungere temperature così proibitive è una mastodontica sfida ingegneristica, che richiede cicli criogenici studiati ad hoc e che consuma un quantitativo enorme di energia nel processo, pari al 30% del contenuto energetico dell’idrogeno stesso.

Il contenitore adatto per l’idrogeno liquido è ancora più articolato della bombola per l’idrogeno compresso. Sono necessarie due pareti contenitive in materiali dalla bassa emissività (cioè che assorbono e riemettono pochissima energia tra quella che arriva sotto forma di radiazione termica, come il calore del Sole) e separate tra loro da uno strato di vuoto per garantire il massimo isolamento termico possibile. Ma non è finita qua: dopo tutti questi sforzi immani si scopre che la densità dell’idrogeno liquido è comunque bassissima: 70 g/l, 14 volte più bassa di quella dell’acqua. La domanda sorge spontanea: ne vale la pena? Ai posteri l’ardua sentenza.

Figura 2: contenitore per idrogeno liquefatto… tanta complessità per uno scarso risultato (fonte: libro di Henrietta W. Langmi)

Entra in gioco la chimica

Entrambi i metodi appena trattati si definiscono storage fisici, perché giocano con le proprietà fisiche dell’idrogeno (pressione e temperatura). A quanto pare questo non basta: per cercare altre soluzioni bisogna esplorare il campo delle reazioni chimiche, attuando dei metodi di storage chimico. L’idea consiste nel far reagire il gas con un solido, in grado di inglobarlo nella struttura del nuovo composto formato dalla reazione e quindi di stoccarlo in maniera compatta e sicura. Quando c’è bisogno di recuperare l’idrogeno, si innesca la reazione inversa e i due materiali si separano nuovamente.

Gli elementi solidi, in grado di fare ciò ,sono i Solid Hydrogen Carrier (abbreviati con la sigla SHC), sotto forma di dischi porosi impilati in barrette, e i prodotti della reazione sono gli idruri metallici. La sicurezza del processo scaturisce dal fatto che le reazioni, sia quella diretta che quella inversa, sono controllate dalla temperatura e non dalla pressione. Il processo è molto semplice: se rimuovo calore dal sistema l’idrogeno si lega con il solido, se invece fornisco calore l’idrogeno torna libero. Se si guarda il contenuto di idrogeno per unità di volume questa è la soluzione ad oggi migliore, sfiorante i 150 kg/m^3. Il problema persiste però se si guarda la massa. È inutile girarci intorno: i solidi sono molto pesanti e con loro affonda l’utilizzo in larga scala di questa tecnologia.

Figura 3: a sinistra la struttura molecolare degli SHC prima e dopo della reazione con l’idrogeno, a destra delle pastiglie di SHC, che verranno impilate a formare delle barre (fonte: IFAM Fraunhofer)

Come uscirne?

La situazione è ancora grigia. L’ultima opzione che ad oggi la scienza ci mette a disposizione è l’evoluzione dell’ultima che vi abbiamo presentato, ossia prova a stoccare l’idrogeno sempre facendogli prendere parte a una reazione chimica, ma questa volta con dei liquidi invece che con dei solidi. Stiamo parlando dei LOHC: Liquid Organic Hydrogen Carriers. Hanno tutti i vantaggi della reazione con i solidi (stabilità, sicurezza, compattezza) e in più aumentano notevolmente l’energia stoccata per unità di massa. Essendo i liquidi meno densi dei solidi, considerando l’intero peso della struttura carica si vede che ben il 15% è idrogeno. Un passo da gigante rispetto alle bombole, ma la strada è ancora lunga.

Sono tanti i liquidi sotto studio, ma uno di essi è senza dubbio il protagonista nei dibattiti in materia: l’ammoniaca. Trasformare l’idrogeno in ammoniaca non è solo benefico per lo stoccaggio, ma anche per il trasporto a lunga distanza: si può immaginare una rete di imbarcazioni che trasporta questo prezioso liquido in viaggi transatlantici, per poi riconvertirlo in idrogeno gassoso al porto di arrivo.  Quindi, qual è la soluzione dell’enigma dello stoccaggio di idrogeno? Non siamo ancora in grado di dare una risposta definitiva a questa domanda, perché ogni alternativa odierna ha i suoi pro e i suoi contro. Se troveremo il lieto fine mixando le opzioni ad oggi a disposizione o con idee totalmente nuove e dirompenti non ci è dato saperlo: il futuro è ancora da scrivere.

Figura 4: mappa che illustra le varie opzioni odierne di stoccaggio di idrogeno… chissà che cosa ci riserverà il futuro! (fonte: articolo di Muhammad R. Usman)

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Avatar Ilaria Giaccardo