Il fallimento dell’Energia delle onde

Sbagliando s’impara, ma alcuni errori costano molto caro. Quando si parla di progetti innovativi, che hanno coinvolto milioni di dollari per realizzare qualcosa mai visto prima, un singolo errore può portare al fallimento di un’intera branca nascente dell’industria, soprattutto nel settore dell’energia. Ma tutto dipende da come si reagisce agli sbagli: la storia che stiamo per raccontarvi ci insegna proprio questo. Vi assicuriamo che, come nei film thriller più avvincenti, rimarrete con il fiato sospeso fino alla fine.

Dalla Scozia con furore: il Pelamis

Siamo in Scozia alla fine del secolo scorso. L’università di Edimburgo è in grande fermento: in quegli anni è il cuore pulsante della ricerca mondiale sull’energia del moto ondoso, cercando di ideare una macchina in grado di imbrigliare la forza delle onde per produrre energia elettrica. Tutto questo è frutto del genio visionario di Steven Salter, il professore di ingegneria a capo del gruppo di ricerca. Ma non è lui il protagonista del nostro racconto: la sua storia l’abbiamo già narrata nel nostro articolo “Almanacco dei convertitori di energia ondosa… gotta catch’em all!”. Oggi parleremo dei suoi allievi, capitanati da Richard Yemm, che hanno ideato un macchinario chiamato Pelamis.

Quando messo in acqua, ha le sembianze di un lungo serpente snodato. Questo perché è composto da quattro cilindri, collegati tra loro tramite giunti a cerniera. L’energia delle onde mette in oscillazione i cilindri e questo movimento aziona le pompe del circuito idraulico all’interno dei giunti. L’olio all’interno del circuito idraulico si mette in moto azionando tre generatori elettrici, in grado di convertire la sua energia cinetica in elettrica. Ogni singolo serpentone ha una potenza nominale di 750 kW: roba non da poco. Quindi, secondo gli studenti di Salter, basterebbe posizionare in mare aperto una piccola flotta di questi rettili per trasformare un fazzoletto di oceano burrascoso in una vera e propria centrale elettrica galleggiante. Le premesse sono ottime: è ora di trasformare questo progetto in realtà.

Figura 1: Schema di funzionamento del Pelamis e dettaglio degli elementi meccanici all’interno della cerniera (fonte: articolo di Kui Ming Li)

Finalmente energia: dall’entusiasmo al fallimento

Il primo passo per realizzare un progetto così ambizioso è testare dei prototipi della macchina all’interno del laboratorio, utilizzando delle vasche di prova. L’università di Edimburgo ne possiede una delle migliori al mondo, progettata e costruita dallo stesso Salter nel 1977. I test portano a risultati eccellenti: è giunta l’ora di fare il grande passo, portando il macchinario in mare aperto.

Nel 2008 prende il via il progetto Aguçadoura: tre Pelamis sono stati installati in Portogallo, in un braccio di oceano vicino al porto di Leixões, poco a Nord della città di Porto. Le principali aziende che permisero a questo progetto di vedere la luce erano la Pelamis Wave Power, fondata dallo stesso Richard Yemm, e la Babcock & Brown, una società australiana di consulenza operante su investimenti sparsi in tutto il mondo. Nel mese di settembre le tre macchine sono in mare: ora inizia il test vero e proprio. Fin da subito si riscontrano dei problemi alle bombole di galleggiamento, ma non sono così gravi da precludere il funzionamento. O almeno così si pensava.

A Novembre 2008 accade il disastro. Dopo nemmeno tre mesi di operatività, i Pelamis vengono riportati al porto di Leixões, a causa di un problema ai cuscinetti. Inizia la burrasca: la Babcock & Brown abbandona il progetto e l’anno seguente va in liquidazione. Si cerca un nuovo partner economico per ripartire, ma la Pelamis Wave Power ritiene che i Pelamis non erano in condizioni ottimali quando sono stati messi nell’oceano. Il test in mare aperto è stato fatto troppo presto: dopo qualche anno di studio per perfezionare le macchine la società ci riprova, ma non riesce a trovare fondi sufficienti e nel 2014 va in bancarotta. Le perdite totali del progetto Aguçadoura sono stimate a 23 milioni di dollari.

Figura 2: I Pelamis del progetto Aguçadoura nell’oceano del portogallo, prima di essere ritirati a causa di problemi tecnici (fonte: Eco Magazine)

È davvero il fallimento per l’energia delle onde?

Un fallimento di questa portata non è tragico solo per le società coinvolte, ma potenzialmente per l’intero settore dell’energia a moto ondoso. Il progetto Aguçadoura è stato un pioniere: la fattibilità della tecnologia era tutta da dimostrare. Gli investitori hanno messo fretta affinchè i Pelamis fossero operativi in acqua, perché nel mondo degli investimenti ogni giorno di ritardo si paga molto caro. Ma dopo un disastro così eclatante, difficilmente le società punteranno su altri progetti simili, temendo di perdere di nuovo esorbitanti cifre di denaro. Il rischio era che a causa del Pelamis nessuno avrebbe più finanziato i convertitori di energia a moto ondoso, con il conseguente abbandono della ricerca a riguardo: un intero settore era a rischio.

Se questo scenario apocalittico non si è verificato, lo dobbiamo alla lungimiranza del governo scozzese. Il giorno dopo il fallimento del Pelamis, il progetto per l’energia delle onde venne affidato ad una nuova agenzia: la Wave Energy Scotland. Si decise di investire del denaro per stilare un report dettagliato di che cosa fosse andato storto nel progetto Aguçadoura. Questo report ha permesso di comprendere gli errori commessi e, forte delle informazioni ricevute, la ricerca è ripartita ancora più decisa, ideando le decine di prototipi che sono in fase di testing proprio in questo momento.

Che cosa abbiamo imparato dal fallimento di questa forma di energia? Tante cose, ma due in particolare sono di grande rilevanza . La prima è che, affinché un convertitore a moto ondoso sia meno incline a guastarsi, deve avere una potenza nominale molto bassa. È meglio posizionare in mare centinaia di macchine da poche decine di kW ciascuna che soltanto tre da centinaia di kW a testa: small is better.

La seconda è che dobbiamo rivedere completamente le tempistiche progettuali. Fino al Pelamis, la maturità di una tecnologia veniva misurata tramite l’indicatore TRL: Technology Readiness Level, in italiano traducibile come “livello di completezza della tecnologia”. Si misura in una scala da 1 a 9, associata alla maturità commerciale della macchina: il livello 1 corrisponde all’idea di base, il 9 alla piena sostenibilità economica della tecnologia. Utilizzare solo questa scala come metro di confronto fa insorgere il rischio che, macchine ritenute pronte ad entrare nel mercato non siano in realtà performanti al massimo. Ecco dunque che, grazie al report della Wave Energy Scotland, è nato il TPL: Technology Perfomance Level (livello di prestazione della tecnologia). Anch’essa da 1 a 9, misura la maturità tecnologica della struttura. Oggi i due indicatori sono sempre affiancati: solo ed esclusivamente quando entrambi raggiungono il livello 9 la macchina può essere commercializzata.

Per seguire la traiettoria di un progetto si utilizza la matrice di Weber, un diagramma in cui il TRL compare sulle ascisse e il TPL sulle ordinate. Quando si raggiunge l’angolo in alto a destra del grafico… via libera!

Figura 3: matrice di Weber, dove solo quando sia TRL che TPL sono alti i progetti possono entrare nel mercato (fonte: articolo di Jochem Weber)

Sbagliando si impara

Il nostro racconto finisce qui. Solo commettendo degli errori possiamo davvero progredire: se non sbagliassimo mai nulla cambierebbe. Ma non basta sbagliare e basta: bisogna attivamente imparare dai propri errori, indagando a fondo su cause e fattori che hanno portato alla disfatta al fine di avere un punto di partenza per migliorare. Se il governo scozzese avesse semplicemente archiviato il caso, senza investire dei soldi per comprendere la natura dei propri errori, noi oggi non parleremmo più dell’energia a moto ondoso. La loro visione perspicace ha salvato un intero settore dell’energia, che in un futuro forse non molto lontano giocherà un ruolo determinante nella lotta al cambiamento climatico. Speriamo di avervi dato degli spunti di riflessione, che in inglese si chiamano food for thought, letteralmente “cibo per il pensiero”: buon appetito.

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