L’archeologia è una scienza a dir poco affascinante. Rinvenendo i reperti dai nostri antenati ci permette di studiare la civiltà dei popoli che ci hanno preceduti, informandoci sul nostro passato e dunque anche su noi stessi. Ma proprio perché le culture sono cambiate nel tempo, a volte capita di non riuscire a comprendere correttamente la funzione di alcuni rinvenimenti, se non addirittura interpretarla in maniera scorretta, dando adito a complottismi ed isterismi di massa… alcune di queste bufale archeologiche hanno portato erroneamente a pensare che i popoli antichi conoscessero ed utilizzassero l’elettricità! Analizziamo insieme le scoperte che hanno indotto a queste bizzarre supposizioni, mettendole alla prova come fossimo in una puntata di Mythbusters.
Origini dell’elettricità: gli antichi greci
Quando si inizia a parlare di elettricità? La parola viene coniata nel 1570 dal medico inglese William Gilbert, mentre studiava ciò che oggi conosciamo come elettricità statica. Notò che alcune rocce e minerali producevano delle forze attrattive dopo essere strofinate tra loro. Potete replicare il suo esperimento strofinandovi un palloncino in testa: quando lo allontanate i vostri capelli vi si rizzeranno in testa nel tentativo di seguirlo! Tornando all’esperimento originale, una delle pietre che possedeva questa proprietà era l’ambra. Ecco quindi che Gilbert prese in prestito la parola greca per ambra per coniare il nome di questo fenomeno: “elektron”, che divenne elettricità.
Gli antichi greci conoscevano le proprietà di questa pietra, ma non avevano i mezzi per spiegarla dunque non ne fecero direttamente uso. Secondo la loro mitologia, l’energia era appannaggio degli dei: il principale attributo di Zeus è proprio la folgore. Sempre secondo la mitologia greca, anche il fuoco era un’esclusiva degli dei, ma Prometeo rubò una scintilla dall’Olimpo per donarlo agli uomini. L’energia era dunque per loro un qualcosa di soprannaturale, governabile solamente dalle divinità.
Figura 1: a sinistra un frammento d’ambra, a destra una raffigurazione di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini (fonti: Electricity-Magnetism e National Geographic Storica)
Misteri egizi: le lampade di Dendera
Spostiamoci adesso nell’antico Egitto, per la precisione a Dendera, una città a 70 km da Luxor in cui sorge un tempio tolemaico dedicato ad Hator, la dea dell’amore e della bellezza. Al di sotto del tempio sono presenti 12 cripte, in cui si trovano delle decorazioni descritte dal fisico inglese J. Norman Lockyer nel 1894 come lampade ad incandescenza. Il motivo per cui trasse questa conclusione è la loro somiglianza con il tubo di Crookes, l’antenato del tubo catodico inventato dal fisico William Crookes negli anni ’70 dell’800.
Guardando le raffigurazioni, effettivamente la somiglianza con delle lampade può saltare all’occhio. Inoltre, queste specie di lampade sembrano appoggiate a degli oggetti molto simili agli attuali isolatori di tensione. Ecco quindi che divennero famose come le lampade di Dendera, dando inizio a teorie secondo le quali gli antichi egizi già padroneggiavano la corrente elettrica molte migliaia di anni prima di noi… è davvero possibile?
Dove sta il trucco? L’inganno risiede nella nostra innata capacità di associare le immagini ad oggetti a noi familiari. Un uomo moderno riconosce immediatamente in quella forma quella di una lampadina, mentre per un antico egiziano la spiegazione sarebbe stata molto diversa. L’immagine rappresenta infatti il serpente primordiale, che spunta da un fiore di loto sorretto dal pilastro djed, simbolo di stabilità, che sostenendo il fiore permette la creazione della vita e la sua ciclica ripetizione giorno dopo giorno. Effettivamente, a guardarle meglio queste presunte lampadine erano un po’ troppo sproporzionate rispetto agli uomini raffigurati… Ricapitoliamo: il filamento della lampadina è un rettile, l’ampolla un fiore di loto e l’isolatore il pilastro della stabilità della vita. Ecco sfatato il primo mito: gli antichi egizi non padroneggiavano l’energia elettrica, parola della dea Hator.
I segreti dei persiani: le lampade di Baghdad
Andiamo ora a Baghdad, la capitale dell’Iraq. Nel 1936 erano in corso degli scavi archeologici nel sito di Kuyut Rabbou’a e si rinvenne un oggetto molto curioso. Si tratta di un involucro allungato di argilla gialla, contenente al suo interno un cilindro di rame a sua volta contenente una barra di ferro, il tutto chiuso da un tappo. Nel 1938 il direttore del Museo Iracheno di Baghdad Wilhelm König lo studiò attentamente, traendo la conclusione che potesse trattarsi di un generatore galvanico. Stiamo parlando dello stesso oggetto che 2000 anni dopo fu scoperto da Alessandro Volta: la pila. Come è possibile?
Questo reperto ha preso il nome di batteria di Baghdad, alimentando le più sfrenate fantasie sulle conoscenze degli antichi persiani. Ma prima di giungere a conclusioni affrettate dobbiamo capire come funziona una pila. Nelle pile viene generata una corrente elettrica facendo avvenire delle reazioni chimiche tra due elettrodi, quando tra di loro si frappone un liquido con delle sostanze disciolte all’interno, chiamato elettrolita.
È lo stesso funzionamento alla base delle fuel cell, di cui abbiamo parlato ampiamente nell’articolo “Dall’idrogeno all’energia elettrica: tecnologia delle fuel cell”. Secondo questa ipotesi, i cilindri di rame e di ferro sarebbero gli elettrodi della pila. E l’elettrolita? Ecco dove casca l’asino: non c’è. Per funzionare come una pila, i due metalli dovrebbero essere immersi in soluzioni acide, sconosciute ai tempi. Sono stati fatti degli esperimenti utilizzando acqua miscelata con aceto e benzochinone, una sostanza secreta da alcuni millepiedi, per simulare la presenza dell’elettrolita: la pila ha funzionato molto male e solamente per pochi minuti.
Le cause principali del fallimento sono date dalla sigillatura della struttura, che non permette il protrarsi della reazione per lungo tempo, e dall’assenza di un materiale che separi l’elettrolita in due porzioni, ognuna a contatto con un diverso elettrodo. Questo componente è essenziale nelle batterie moderne perché impedisce il corto circuito della pila, bloccando il moto degli elettroni nell’elettrolita ed obbligandoli a passare attraverso il circuito elettrico ad essa collegata. A proposito, non sono mai stati ritrovati fili esterni conduttori che possano indicare collegamenti tra i vasi per formare un circuito elettrico.
Ma quindi cosa sono veramente le batterie di Baghdad? Non abbiamo ad oggi ancora una risposta certa, ma l’ipotesi più accreditata è quella che fossero dei contenitori per rotoli sacri. Questi scritti venivano utilizzati per scopi magici o propiziatori e venivano conservati insieme a diversi metalli, che rappresentavano le divinità. Alcuni sostenitori della teoria della pila ritengono invece che fossero usati per effettuare elettro placcature in oro, ma non abbiamo prove a conferma di ciò. Per ora…
Che abbaglio! Conclusioni e riflessioni
Sebbene studi ciò che è accaduto in passato, l’archeologia è una scienza in continua evoluzione. Innumerevoli scoperte stravolgono continuamente il nostro modo di immaginare la vita dell’antichità. Non dobbiamo però dimenticarci che gli archeologi sono uomini contemporanei e che quindi analizzano i ritrovamenti con gli occhi della modernità. Questo può a volte portare a conclusioni errate, che se sfuggono di mano possono dare adito ad intere teorie complottiste basate sul niente. Possiamo affermare con relativa certezza che, stando alle nostre conoscenze attuali, i popoli antichi NON conoscevano né usufruivano dell’energia elettrica. Ma chissà quali altre incredibili sorprese ci riserveranno i nostri antenati!
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